Il padrone del mio destino, il capitano della mia anima

INVICTUS: parola latina che significa non vinto; è un participio passato ed anche in italiano serve per indicare un’azione che è stata subita, così come accadde a Nelson Mandela nei suoi 27 anni di prigionia, che lo lasciarono però INVINTO. Non dico invincibile perchè Mandela delle sconfitte le subì, così come tutti i neri del Sudafrica, fino alla sua scarcerazione ed elezione a Presidente nel ’92. Nonstante la vittoria però, la salita al potere, non mostrò mai l’ arroganza dell’invincibile, anzi dovette continuare a combattere anche all’interno del suo partito, tra i suoi stessi compagni.

Quella che lui voleva fondare infatti era la Nazione Arcobaleno, lo Stato della Riconcilazione, che non tutti i suoi sostenitori riuscirono inzialmente a cogliere: non appena insediatosi infatti, scoppiarono delle rivolte, i neri si infuocarono animati da uno spirito di rivalsa, pensando che stavolta si sarebbero potuti vendicare di tutti i torti subiti dai governi bianchi. A loro volta i bianchi si ritirarono timorosi di un’inevitabile rappresaglia e il giorno dell’insediamento di Mandela molti collaboratori del precedente presidente fecero i bagagli convinti di esere sostituiti immediatamente. Ma Mandela non si comportò come ci si aspettava, riuscì a stupire persino i suoi stessi familiari che non compresero il suo nuovo pensiero e lo lasciarono solo a ricostruire un paese eternamente diviso dall’odio, cercando di gettare il seme dell’amore.
La cosa infatti che mi ha stupita più di tutte della vita di Mandela è che prima del carcere egli appoggiò, partecipò, addirittura fondò l’ala armata del suo partito anti-apartheid; non si trattava dunque di un pacifista convinto, e non lo fu per molto tempo, tant’è che dopo alcuni anni di carcere, quando gli fu offerta la libertà condizionata in cambio della rinuncia alla lotta armata per cui era stato condannato all’ergastolo, egli sdegnosamente rifiutò.

Con il passare del tempo però l’isolamento invece di inasprirlo o fiaccarlo nell’animo, riuscì solo ad abbattere i limiti della sua consapevolezza, e gli permise di mettere al centro di tutta la sua politica, il perdono, che solo avrebbe permesso di spezzare il circolo vizioso dell’odio tra bianchi e neri; il perdono come unica arma per andare avanti, per ricominciare davvero, l’arma per ottenere la vera libertà, quella dell’anima.
Il suo indomito spirito di combattente, questa volta  messo a servizio della pace, vide un possibile strumento per realizzare il suo piano   nella squadra di rugby del Sudafrica. Questa da sempre, anche nei colori sociali, era stata un simbolo dell’apartheid, gioco che seguivano solo i bianchi, gioco  giocato quasi esclusivamente da soli bianchi. Mandela non realizza solamente come questo possa rappresentare un mezzo per far sentire i sudafricani tutti uniti sotto un’unica bandiera, il suo rapporto con il capitano della squadra sembra voler cercare di scoprire quali sono i giusti rapporti tra gli uomini, quello che un individuo è in grado di fare per una causa, dove si dovrebbe fermare il singolo e lasciare spazio alla collettività, come tutti essenzialmente siamo intimamente connessi.

Detto questo non voglio rovinare la visione di questo film così bello e profondo, alieno da qualsiasi luogo comune e discorsetto già sentito, sebbene un pericolo del genere nel raccontare qualcosa di così grande fosse continuamente dietro l’angolo. Ho pianto parecchio; di gioia, di partecipazione, di amore.

P.S. Il video estratto fa riferimento al momento del film in cui la squadra poco prima dei mondiali visita il carcere dove Mandela fu rinchiuso per 27 anni.

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